La lunghissima frequentazione che mi lega a Sergio Barletta mi ha permesso di vederlo all'opera su molti fronti: grafica, fotografia, pittura (che io sappia non è mai stato tentato dalla scultura). Ma anche il taglio della legna per il camino, l'affilatura dei coltelli, la seminagione dell'orto, la decorazione della culla destinata a sua figlia, la costruzione delle librerie di casa e di alcuni divani. E si potrebbe continuare.
La sua è una sapienza arcaica; è quella dell'individuo che ha la possibilità di opporre pollice e indice, e che attraverso i suoi gesti incide, disegna e interviene sulla propria realtà. Pure, quella sua manualità antica è nutrita di un pensiero forte, in assoluto colloquio (meglio sarebbe dire discussione, condanna, rifiuto. Ma anche sberleffo e ironia) con questa epoca. Come a dire che Sergio è un artista modernissimo di stampo rinascimentale.
Conosco il suo lavoro, che in alcune stagioni - anche lontanissime - ho quasi sempre amato molto. Quel “quasi” allude a un periodo sulla fine degli anni Ottanta in cui la morte, il lutto, e un'idea bituminosa del mondo rendevano la sua pittura e la sua grafica - sempre bellissime - per me intollerabile. Quando glielo confessai ebbe un sorriso; era proprio quello che voleva: fare pittura sull'insopportabile.
Quello che fra me e me io ho chiamato il suo “periodo nero” (lui neppure lo sa) è poi terminato, e sono esplose nuove forme e nuovi colori. Se la pittura degli anni Settanta era informale (e io ho il privilegio di avere due belle opere di quel periodo) a partire dagli anni Novanta, Sergio mette la figura femminile al centro del suo lavoro, e la declina con grande, aguzza, ironica vitalità. A volte anche con ferocia: ho un suo quadro enorme e bellissimo, in cui una donna senza volto tiene a guinzaglio stretto due dobermann. Non c'è altro che pittura: non è un ritratto (il viso di lei non si vede), non è una denuncia, non è altro che bella, bellissima pittura. Non sono un critico d'arte, non ho alcuna preparazione accademica. Il mio è soltanto lo sguardo di un passante, che riesce a cogliere nel lavoro di Barletta una lontana influenza di Bacon. Ma che al dunque trova e ritrova lui, e soltanto lui.
Il magro, occhialuto scarpinatore che ho conosciuto nel 1968 oggi si è fatto un uomo più spesso, più solido, più corposo. Ma questi aggettivi, da me usati per raccontare la sua fisicità, funzionano anche per la sua pittura. Che celebra - come sempre succede quando si tratta di bella pittura - la (oggi più che mai minacciata) magnificenza dell'intelligenza.
Patrizia Carrano